Ho letto e sentito tanti proclami, discorsi ed eventuali soluzioni da attuare, ognuno dei quali va nella direzione delle protezione dell’export italiano, in seguito ai Dazi Usa emanati in questi mesi. In pochi giorni si sono susseguite notizie di nuovi dazi rispetto ai precedenti, aventi l’obiettivo di alzare sempre più in alto l’asticella della percentuale applicabile, così come risposte da parte delle Ue su papabili contro misure.
Sembrerebbe che a pochi importi del fatto che l’Europa voglia controbattere, dal momento che la forza dei dazi americani sembra simile a quella di un mitologico titano che si scaglia contro una formica. Per molte cantine gli Stati Uniti sono il mercato principale, oppure uno dei due/tre mercati principali, per cui è indubbio che ogni modifica allo status quo possa mettere ansia e turbare i sogni di molte realtà vinicole. Lo spettro di nuovi dazi Usa aleggiava da tempo ed ora, rimandi dopo rimandi, il triste giorno è arrivato.
Immagino che ciò accada sopratutto per chi vende e/o produce vini della fascia di prezzo bassa o bassissima, per capirsi tutti quei vini che l’Italia vende a prezzo di ingrosso fino ai cinque ero a bottiglia, ed anche per quelli di fascia media in cui un eventuale dazio potrebbe seriamente inficiare la naturale capacità di concorrenza con i loro competitor diretti.
Questa premessa non vuole escludere a priori i vini di medio/alto od alto costo, perché nella rete dei dazi Usa finiranno tutti i vini, aldilà del loro prezzo di vendita. È fondamentale però precisare che il settore del lusso, vale per il vino come per altre categorie merceologiche, soffre generalmente molto meno di queste variabili economiche. Se proprio vogliamo dirla tutta, alcune fasce di consumatori, naturalmente abituate a spendere cifre importanti per alcune bottiglie, non guardano se il rincaro percentuale, dovuto all’applicazione dei dazi Usa, possa portare il costo di una bottiglia, per esempio da 850 euro ad oltre 1000 euro.
Ritorniamo però a parlare dei vini economici, quelli che sul suolo italico molto spesso vengono definiti “vini da lavoro”, termine abusato e pedissequamente irritante da sentire: a mio avviso snatura, svilisce e non rende giustizia al prodotto. Un vino definito “da lavoro” si presente già male, quasi come se l’azienda stessa che lo produce non ci creda fino in fondo…ma tant’è!
Questa è una mia idea, magari anche sbagliata, ma che mi ha sempre allontanato da una determinata fascia di prodotto: non solo per il prezzo, ma per i dubbi che quest’ultimo lascia pensando alla qualità finale del vino ivi contenuta. Oggi i miracoli son difficili anche solo da immaginare, sopratutto considerando il continuo aumento dei costi di manodopera e materia prima ( energia, vetro, tappi ed altri ), per cui si rischia di andare sempre più a sacrificare la qualità del prodotto piuttosto che alzare il prezzo di vendita e cercare di mantenere la medesima qualità.

È colpa dei dazi Usa oppure della scarsa qualità di alcuni vini italiani?
È più facile vendere a basso prezzo, facendo sconti o limando il costo finale piuttosto che concentrarsi sul miglioramento di ciò che si mette in bottiglia. Saranno proprio questi vini a soffrire maggiormente dei Dazi Usa e di queste tempeste economiche, mentre sui vini dal prezzo medio e medio/alto il dazio del 15% peserà meno in una scala di proporzioni. Sicuramente neppure loro saranno aiutati da politiche di rinforzo dei prezzi, già prima molto più alti rispetto all’Europa.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che in Italia abbiamo puntato molto sulla fascia bassa per vendere i nostri vini all’estero, cercando di guadagnare quote di mercato ma perdendo l’ottica della qualità finale. Molti cavalli di razza nei fatturati di vendita del vino italiano hanno un prezzo di vendita all’ingrosso molto basso.
Basti pensare all’invasione degli anni 80/90 negli USA di Pinot Grigio italiani: molti non sarebbero stati utili neppure per pulire lavabi otturati, invece sono diventati fenomeni di massa rilevanti. Negli ultimi vent’anni è stata la volta del Prosecco a trainare l’export italiano, fino ad arrivare ad essere un fenomeno commerciale da circa 600 milioni di bottiglie prodotte ogni anno. In mezzo a questo marasma di bottiglie ci sono prodotti industriali comunque buoni, alcuni artigianali di rilievo e poi un oceano di “sottobosco” che sicuramente non emerge per qualità.
Oggi circa 2 miliardi di euro di fatturato del vino italiano appartengono a 4 conglomerati di aziende che non fanno del racconto territoriale, della ricerca della qualità e dell’identità delle uve il loro primo ideale, bensì sono gruppi industriali che spesso imbottigliano vini e mosti provenienti da regioni o zone diverse, buttando tutto dentro un grande calderone e spedendo pallet su pallet di vino via nave od aereo in giro per il Mondo.
Due miliardi di fatturato per chissà quante bottiglie ( o brick) di vino, visti come la manna dal cielo dal settore e sovente sponsorizzati e protetti da stampa, associazioni di categoria e filiere produttive. Di sicuro queste aziende danno lavoro a migliaia di famiglie italiane, per cui non si può che compiere un gesto di gratitudine per questo sostentamento all’economia nazionale, ma ciò non toglie che il fatturato e la forza lavoro non sempre debbano nascondere e mettere in secondo piano altre peculiari caratteristiche del vino che viene venduto. Anche in questo caso, qualora in futuro le vendite caleranno, sarà solo ed esclusivamente colpa dei dazi Usa?

Cambiamenti come i dazi Usa possono portare comunque occasioni di crescita?
Quando gli eventi internazionali sono scossi da cambiamenti così impattanti e profondi non è facile mantenere lo status quo delle cose e continuare sulla strada finora percorsa senza perdere un po’ di equilibrio. Poiché si vende un prodotto e si incentra il proprio successo quasi tutto sul prezzo e sulla disponibilità dello stesso, si rischia di diventare più facilmente sostituibili da competitor od altre nazioni che possono offrire un prodotto con caratteristiche similari. Molti paesi nel Mondo sono stati oggetto dei dazi Usa, per cui ogni filiera produttiva ed ogni Nazione saprà reagire in modo diverso a questo cambiamento.
È successo in altri settori, come l’elettronica di consumo o la telefonia mobile, in cui aziende leader degli anni 80/90 si sono viste scavalcare dalle rampanti aziende degli anni Duemila, così come negli ultimi dieci anni sono nati ulteriori marchi di successo che hanno incrinato bilanci, vendite e certezze dei leader di mercato delle ultime due decadi. L’esempio è peraltro calzante, visto il mio trascorso professionale proprio in quel settore.
Qualcuno potrà assertire che il vino non è uno smartphone ed io posso essere pienamente d’accordo: ciò però vale quando un prodotto è qualitativamente riconoscibile per caratteristiche innate e tipicità che non si possono rinvenire in altri prodotti simili. Penso ai grandi rossi della Borgogna o di Bordeaux in Francia: in tanti li hanno imitati, qualcuno si è pure avvicinato ma in tanti hanno sbattuto le loro granitiche certezze contro la verità dei fatti. Certi prodotti sono talmente unici ed iconici da essere un faro, un punto di riferimento per molti competitor, ma poche o rarissime volte un punto di arrivo.
Ecco quindi che centinaia di milioni di bottiglie di vino italiano oggi sono sotto scacco dei dazi Usa, con anche il problema che qualche altro paese possa, anche solo gradualmente, inserirsi nel feudo italico e piano piano sottrarre fatturato alle aziende italiane. Dopotutto se la tua forza non è l’unicità ed irripetibilità del tuo vino, ma il prezzo, la disponibilità, le grandi quantità che si possono acquistare e la voglia di fare fatturato prima di ogni altra cosa, potrà sempre esserci, nel vastissimo mondo del vino, chi può fare conti economici meglio dei tuoi.
In Cile, Argentina, Cina, Australia, giusto per citarne alcuni, hanno zone di produzione più ampie delle nostre e con potenzialità di produrre vini simili per qualità a quelli italiani ma con prezzi molto più bassi. Forse non sarà il caso dei cinesi, presi di assalto più di ogni altra nazione al Mondo dai dazi Usa, ma di altri paesi probabilmente si.
Possono esistere soluzioni ai dazi Usa? Le bacchette magiche non esistono…
Se la carta per vincere la partita è il prezzo, non si può avere certezza di essere eterni nel mercato: si può stare in cima ed occupare il trono per anni finanche non arriveranno altri più belli, bravi e convenienti di noi. Forse l’ occasione dei dazi Usa potrebbe essere il momento per una riflessione nel sistema produttivo del vino italiano, facendo sì che ci si allontani dall’impellente voglia di vendere qualsiasi prodotto derivante dall’uva italiana, anche se originario da terreni che prima erano paludi oppure da una miscelazione, peraltro anche ben eseguita, di uve e mosti di dubbia qualità ed infinita provenienza territoriale.
Non sono bastati neppure i Consorzi di Tutela in molti casi a dare valore al vino italiano, visto che si trovano grandi Docg a prezzi di poco superiori a quelli di un vino in brick. Alla fine di grandi vini delle Langhe, di Bolgheri o di Montalcino sembra che ce ne siano molti, ma la realtà dei fatti è che tante, troppe zone del vino in Italia arrancano e faticano.
Abbiamo cercato per decenni di sponsorizzare il concept del vino italiano prima della sua qualità intrinseca, andando in taluni casi ad impantanarci nel gioco, diventato a tratti quasi crudele, della presuntuoso scudo protettivo offerto dalla denominazione di origine per vendere e promuovere un vino. Nonostante ciò si scorgono, puntualmente e con cadenza ormai settimanale, offerte a basso prezzo di Docg molto famose in tutte le corsie dei supermercati italiani.
Mi auguro che la situazione possa essere in futuro più rosea e migliore di quanto oggi possa sembrare: non resta che aspettare e nel frattempo, perché no, fare qualche azione per migliorare e cambiare. Restare immobili e ferrei sulle nostre convinzioni probabilmente non ci aiuterà ad uscire dal pantano in cui molti vini si potrebbero ritrovare. Lo scenario di questi nuovi dazi Usa comprendo che spaventi, soprattutto per la stabilità economica di molte aziende italiane: adesso però è il momento di fare un cambio di passo, di studiare nuove strategie e, perché no, anche di fare un grande ed epocale cambiamento all’interno del comparto vinicolo italiano.
di Morris Lazzoni
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3 Agosto 2025. © Riproduzione riservata